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27 maggio 2024

Atari o Intellivision?

 La notizia del passaggio del brand Intellivision ad Atari segna di fatto la fine di un’epoca, in realtà già finita da tempo. Quella della prima era d’oro dei videogiochi da casa, dominata inizialmente dalla console Atari VCS (poi 2600) lanciata da Atari nel 1977 e il cui scettro fu conteso da Mattel con il sistema Intellivision uscito un paio di anni dopo. Una battaglia tra una macchina graficamente inferiore ma con un catalogo amplissimo (composto anche da tante conversioni da arcade) e una più evoluta il cui punto forte erano di fatto le simulazioni sportive, molto più realistiche di quelle presentate sulla controparte.


Ma anche una battaglia che in Italia si giocò qualche anno dopo (l’Intellivision da noi uscì nell’estate del 1982), considerati i tempi tecnici di lancio in Europa molto diversi da quelli attuali, mentre nel contempo si affacciavano sul mercato anche i primi (e costosi) home computer. E a cui parteciparono come attori interessati direttamente sui due fronti i produttori indipendenti delle all'epoca cartucce, con brand destinati poi a fare la storia anche negli anni successivi (come Activision, nata da alcuni designer fuoriusciti da Atari) o semplicemente diventati icone dell’epoca (come Imagic).

Indimenticabili quindi la sorpresa dei primi platform così come le pubblicità tipicamente americane che mettevano a confronto le simulazioni di entrambi i sistemi. Ecco che i ragazzini si divisero in vere e proprie fazioni (meglio il joystick o il comando a disco?), dalle quali erano esclusi i possessori di console di minore successo come il Videopac proposto in Europa dalla Philips. Poi arrivò a sparigliare le carte il ColecoVision, ma era troppo tardi, con il temporaneo crollo di un’industria poi via via ripresasi alla grande per continuare fino ai giorni nostri. Con sistemi potentissimi che hanno cambiato l’esperienza videoludica mentre le vecchie console vivono tra il retrocomputing e i cosiddetti giochi homebrew sviluppati ex novo. E voi per chi eravate: Atari o Intellivision?

14 maggio 2024

La banda degli onesti

Prendiamo nuovamente spunto da una notizia di cronaca (il sequestro a Napoli di circa 48 milioni di euro in banconoteda 50 euro contraffatte) per parlare di un altro film interpretato da Totò: La banda degli onesti. Uscito nelle sale nel 1956 e diretto da Camillo Mastrocinque, racconta la storia del custode Antonio Bonocore (Totò), del tipografo Giuseppe Lo Turco (Peppino De Filippo) e dell’imbianchino Cardone (Giacomo Furia) che si ritrovano con in mano cliché e carta filigranata trafugati da un condomino di Bonocore nientemeno che all’Istituto Poligrafico dello Stato. E che decidono, dopo tanti dubbi e spinti dalla necessità, di produrre loro stessi le banconote da diecimila lire (dei lenzuoli, di fatto).

Parte del filone più ‘serio’ delle pellicole interpretate dal principe De Curtis, La banda degli onesti include diverse scene entrate di diritto tra le migliori del suo repertorio. A partire dal confronto tra Bonocore e il prepotente ragionier Casoria (il sempre straordinario Luigi Pavese), amministratore dello stabile, passando per la spiegazione sociale che lo stesso portinaio dà al tipografo davanti a una tazza di caffè (con continue storpiature del cognome). “Questo è lei (la prima tazza di caffè, ndr) e questo è il capitalista, il profittatore (la seconda tazza, ndr). E questo è invece il capitale (lo zucchero). In origine sono senza zucchero tutti e due…”, fino alla leggendaria scena della produzione delle banconote.

Totò passa con disinvoltura dal comico al malinconico, dipingendo insieme agli altri protagonisti un mondo fatto di cambiali e vite sul filo della Lira. Da citare per tutti il dialogo tra Bonocore e il suo futuro sostituto, inviato dal vendicativo Casoria, che in poche battute ed espressioni (quella di Totò vale tutto il film) tratteggia il dramma della possibile perdita del lavoro. Iconico, oltre che primo grande film con Totò e Peppino insieme.

Paolo Morati



07 maggio 2024

Eurovision 2024: la partita di Malmö


Se la memoria non ci inganna il primo Eurovision Song Contest che abbiamo seguito, in piena pre-adolescenza, fu quello del 1983. Si tenne a Monaco di Baviera con in gara Riccardo Fogli, classificatosi all’undicesimo posto. Il brano era Per Lucia. Scoperto per caso scanalando il sabato sera sul televisore a colori appena sbarcato in casa, da lì non ce ne siamo persi uno, anche negli anni di assenza italiana, A 41 stagioni (sigh) di distanza entriamo oggi nella settimana decisiva dell'edizione numero 68 che si svolge Malmö, in Svezia. Aperta parentesi: quando eravamo ragazzini per noi il Malmö (anzi il ‘Malmoe’, come ci piaceva chiamarlo) era la squadra di calcio che aveva perso la finale di Coppa dei Campioni contro il Nottingham Forest nel 1979. Finale vista in gita di classe con i compagni delle elementari. Chiusa parentesi. Riaperta parentesi: meglio o peggio del millesimo PSG-Real di cui già il giorno dopo non ci ricordiamo?


Dicevamo che oggi, con la prima semifinale, si apre la gara canora che assegna il microfono di cristallo (tre le vittorie italiane) e che vede La noia di Angelina Mango tra le canzoni favorite, almeno stando alle quote dei bookmaker. Manifestazione blindata, considerate anche le polemiche sulla partecipazione di Israele (vietate le bandiere palestinesi), e ospitata in Svezia dopo l’ennesima vittoria degli scandinavi, con Tattoo di Loreen sospinta dalle giurie ai danni del trionfatore del televoto, il finlandese Käärijä e la sua Cha Cha Cha. Con tanto di fischi. Una situazione che potrebbe ripetersi anche quest’anno, con protagonisti ad esempio il croato Baby Lasagna (Rim Tim Tagi Dim) o lo svizzero Nemo(The Code), in una situazione di pronostici a dire il vero ancora piuttosto fluida e dove conteranno gli elementi scenografici ma anche il timing dell’esibizione.

A questo proposito, altre polemiche sono state innescate dai cambi di regolamento che ora consentono di televotare fin dall’apertura della finale (come accade a Sanremo) quindi anche senza teoricamente aver ascoltato i brani o viste le esibizioni già dalle semifinali. Una,modifica, hanno fatto notare i più critici, arrivata guarda caso proprio l’anno in cui la Svezia è stata estratta come prima a cantare. Svezia tra l’altro odiata da molti seguaci della manifestazione per avere in mano ormai da tempo i fili dell’organizzazione con conseguenti accuse di godere di favoritismi. Del resto l’Eurovision Song Contest, con buona pace di Toto Cutugno che nel 1990 lo vinse intonando Insieme 1992, è una gara che da un lato promuove la cosiddetta unione tra popoli (United by Music lo slogan permanente) ma dall’altro evidenzia i legami fra alcuni di loro così come le rivalità geopolitiche. E questo ancor più dopo l’allargamento via via sempre maggiore dei partecipanti che quest’anno sono 37. Con ritorno del Lussemburgo e uscita tra le altre di Bulgaria, Romania e Slovacchia, per lo più per ragioni economiche.

In tutto questo l’Italia ha quasi sempre goduto di un’ottima accoglienza, in particolare dopo il ritorno in gara avvenuto nel 2011 (secondo posto di Raphael Gualazzi). Forse perché abbiamo buoni rapporti con tutti ma anche perché di norma portiamo un prodotto dignitoso che non strizza l’occhio a un pubblico particolare, evitando baracconate varie. Poi per vincere di nuovo sono serviti i Måneskin, con un genere non certamente considerato ‘all’italiana’, ma sarà interessante vedere cosa accadrà quest’anno con Angelina Mango che già dalle prime prove sembra – stando a chi le ha viste – portare un’esibizione de La noia capace di lasciare il segno. Vincitrice? Difficile. Top5? Probabile.

30 aprile 2024

Tutta la vita con i Ricchi e Poveri

Ma non tutta la vita dei Ricchi e Poveri è il vero brano vincitore dell’ultimo Festival di Sanremo? Probabilmente no, ma classificatosi appena alla ventunesima posizione ha scalato le graduatorie che oggi forse contano di più, ossia quelle degli ascolti in streaming. Quelle del pubblico giovane (o presunto tale), giocandosela alla pari con i vari trapper e similia oltre che con la trionfatrice Angelina Mango. Un successo, quello di Ma non tutta la vita e dei Ricchi e Poveri, premiato con il disco d’oro (certo molto diverso rispetto a quello che si assegnava negli anni 80), che nessuno degli osservatori aveva previsto. Anzi i giudizi iniziali che avevamo letto in anteprima non erano certamente di tipo elogiativo.


Ma non tutta la vita
 era visto come un brano che sapeva di vecchio, poco moderno, anzi fuori tempo massimo. Zitti zitti Angela e Angelo hanno invece sovvertito i pronostici e guadagnato sempre più consenso proponendo un significato ben centrato e grazie a un’intelligente strategia di comunicazione. Ma non tutta la vita è di fatto un invito a non perdere le occasioni, a non far passare il tempo all’infinito. Detto questo, è gradito per noi il successo che i Ricchi e Poveri stanno raccogliendo, loro che ci sembrano da sempre parte della vita (da quando erano in 4, poi in 3 e ora in 2).

Un quartetto, quello iniziale dei Ricchi e Poveri, che ha vissuto momenti di grande popolarità negli anni 70, tra alti e bassi, riguadagnandola come trio all’inizio degli anni 80 anche grazie alla mano di Freddy Naggiar e della sua etichetta Baby Records. Non c’è dubbio che sia stato infatti il magico decennio a portarli in giro per il mondo, da Sarà perché ti amo in poi, con i loro brani costruiti per piacere subito (da leggere a tal proposito la nostra intervista a Cristiano Minellono)  e Ma non tutta la vita rientra proprio in quel filone solo apparentemente scanzonato, che entra bene in testa. Poi con oltre 8 milioni di ascoltatori mensili su Spotify c’è solo da essere contenti per loro… ma anche per noi.

Donne o Trans?

Donne o trans? O meglio: gli uomini diventati (più o meno) donne devono poter competere con le donne nello sport? Il pretesto per parlarne a...