03 giugno 2024

L'ordine del tempo


Per questa sera consiglieremmo il bellissimo Amarsi un po', alle 23 su Cine 34, ma su Indiscreto lo abbiamo già recensito e così per una volta parliamo di un film che non ci piaciuto come L'ordine del tempo. Una vera rarità, perché di solito opere di questo tipo le abbandoniamo dopo tre minuti e quindi non le recensiamo nemmeno. Ma questo di Liliana Cavani, intercettato sull'on demand di Sky Cinema, pur essendo il peggior film visto per intero negli ultimi anni in un certo senso ci ha conquistato perché sintetizza tutto ciò che non ci piace del cinema italiano, ormai del tutto svincolato dal gradimento del pubblico. Non significa che tutti i film italiani siano insuccessi, anzi, ma soltanto che gli incassi reali al cinema ed il successo nel tempo in televisione non sono decisivi nelle scelte produttive e artistiche.

Il film, presentato nel 2023 a Venezia, altro non è che uno dei milioni di tentativi (alcuni anche riusciti benissimo) di riproporre lo schema del Grande Freddo, con alcuni amici che si ritrovano in una casa, spesso di vacanza, in questo caso a Sabaudia, facendo emergere i tanti non detti dei loro rapporti e riflettendo su un futuro che sembra non esserci. In L'ordine del tempo questo assume un significato letterale, visto che l'esistenza di questo gruppo e anche dello stesso pianeta è minacciata da un meteorite, con il pericolo intuito soltanto dalla domestica peruviana e dagli addetti ai lavori, fra cui uno del gruppo, l'onnipresente (nel cinema italiano) Edoardo Leo, qui nei panni improbabilissimi dell'astronomo tormentato.

Il film è tenuto in piedi dalla presenza vitale di Alessandro Gassmann, ma per il resto è il festival dei luoghi comuni e della verbosità, con un cast anche di buoni nomi (Claudia Gerini, Kseniya Rappaport, Francesca Inaudi, Valentina Cervi, Angela Molina, il tedesco specializzato in tedeschi, SS o Wermacht a seconda del film, Richard Sammel che qui però fa il trader di Borsa) ma in mezzo ad una storia inconsistente che ha la consulenza scientifica di Carlo Rovelli, cioè l'autore del libro, e nessun personaggio a cui ci si appassioni. Quindi delle loro rivelazioni (una vecchia storia lesbica, una fresca storia di corna, un amore tormentato, un disastro finanziario) non ce ne importa niente, anzi speriamo che questa borghesia venga davvero distrutta dal meteorite. La curiosità c'è però per la casa di Sabaudia: sembra abusiva, al livello di quella di Montalbano. Unico guizzo della Cavani la sottolineatura dell'appartenenza di classe sociale, fatta tramite la domestica, ma i Vanzina con Asuncion e Conception avevano già detto tutto quaranta anni prima.

Prima dei saluti

 Oscar Eleni a rapporto sulla grande strada argentina che porta verso il Pizzo Torre per confessare al grande gufo grigio, fratello dell’allocco che domina in Lapponia, il disagio della passione. Aspettando Olimpiadi che ci vorrebbero rubare con le bombe, gli attentati, nella speranza che le notizie nascano soltanto da grandi risultati, ecco il giugno della follia. Euroscogli  di grande atletica, di calcio tormentato per la nazionale di Spalletti. In mezzo, per chi sogna canestri da metà campo, le finali del basket. Confusione televisiva, tormenti al momento di dover scegliere fra un bel lancio di Fabbri e un bel canestro fra Bologna e Milano, sognando la resurrezione di Lazzaro Jacobs non soltanto nella staffetta che dovrebbe almeno ridarci il vero Tortu, pregando che siano tutte notti magiche da vivere bene se davvero l’atletica ci darà più di 20 medaglie europee, senza litigare troppo, con la musica giusta, anche se non sarà sempre magia come quando Gianna Nannini e Bennato ci accompagnavano in una estate italiana che non faceva i conti con Maradona. Certo non sarà facile scegliere e, soprattutto, sembra impossibile avere garanzie per non processare Jacobs e il suo guru se dovessero andar male, avere garanzie che la finale del basket più classica non sarà intossicata da polemiche, minacce, anche se a Milano e Bologna si stanno già impegnando per confondere chi arbitra più delle letterine per avere la palla prigioniera invece della pallacanestro, per dare a giocatori in scadenza (ma non lo sono sempre?) la scusa buona al momento di tradire o Messina oppure Banchi.

Aspettando Godot e la prima partita di finale giovedì sera, seguendo la scia del calcio a mercato sempre aperto, ecco le prime bombe puzzolenti. Giocatori delle finaliste con valigia pronta. Allenatori delle due storiche regine, forse non le più belle, di sicuro le più ricche, messi già in graticola e misteriosamente in viaggio per altri troni. Dovrebbero spiegarci perché Banchi potrebbe lasciare la Virtus per andare a Baskonia e quali sarebbero i motivi per far cambiare idea a Messina sul fatto che Milano è davvero l’ultimo porto nella sua gloriosa carriera. Il bue che grida cornuto all’asino sta già scatenando i dietrologi che hanno la tenda fissa davanti alla Fiera bolognese e al Forum di Assago. L’unica verità dolorosa per le due finaliste e che la regina decapitata lascerà sul patibolo della finale anche tutto il resto perché potrebbero fare la fine del Barcellona che, come accadde soltanto nel 2017, Bartzokas regnante, ha chiuso la stagione senza prendersi niente come il Villeurbanne del confuso Parker. Per la verità la Virtus e Banchi hanno fatto subito l’amore in piazza appena Scariolo se ne è andato lasciandogli l’incombenza della supercoppa, mentre Messina non ha davvero mai brindato dopo aver perso con Napoli la finale di coppa Italia, mortificato in eurolega, come il garibaldino di  Grosseto che comunque gli è arrivato davanti.

Mentre il calcio brinda e si tormenta perché Como e Venezia, due neopromosse in serie A, hanno stadi non proprio da massima serie, i lariani infatti, giocheranno a Verona, il basket aspetta di capire se Trapani è davvero più forte della Fortitudo che ha perduto gara uno e anche Aradori, indeciso se tifare per la grande tradizione di Cantù, borgo magico con tante coppe e scudetti da accarezzare, o per la storia della Trieste che al basket e allo sport italiano ha dato campioni meravigliosi. Stiamo parlando della A2 ignorata da edicole in chiusura come al Washington Post. Con questo dilemma ci si lascia proponendo pagelle al rosolio modificato.

10 Al PETRUCCI che, per far dimenticare come ha trattato il Sacchetti che aveva riportato il basket italiano ad una Olimpiade, ci ha assicurato un contratto garantito per Pozzecco anche se non dovesse superare le Termopili in Portorico, unica strada per arrivare a Parigi.

9 A BRESCIA e VENEZIA per lo stile che hanno mostrato accettando il duro verdetto del campo. Speriamo che i loro generali trovino società pronte a rinforzare il blocco che ha reso comunque difficile la vita alle regine.

8 A PARIGI perché la squadra di basket che ha già vinto una coppa e farà la finale per il titolo contro Monte Carlo ci garantisce che non tutto finirà con i Giochi olimpici.

7 A SLOUKAS per averci perdonato quando ci siamo dimenticati di lui e della sua grandezza dopo la finale di coppa vinta con il Panathinaikos di ATAMAN che non sembra intenzionato a cambiare scenario e ponte magico anche se qualcuno pensa che potrebbe essere lui il dopo Messina nel caso in cui il presidente-tecnico Ettorre suggerisca a Dell’Orco e ad Armani l’uomo che ha studiato in Italia e per primo ha scoperto il tesoro ormai sepolto di Siena.

6 A TRENTO per  la calma mostrata quando ALVITI ha chiesto di poter andare a tirare altrove. Speriamo che invece riesca a trattenere BILIGHA come ha fatto con FORRAY.

5 A PETRUCCI per averci ricordato che con l’età si perde la memoria perché quando lui dice di avere avuto tanti avversari nelle corse per la presidenza del basket facciamo fatica a ricordarci il nome di un vero avversario, così come quelli in questa corsa da anni bisesto.

4 Ai GIOCATORI delle finaliste che sono anche in scadenza di contratto se non dimostreranno ai gufi della Lapponia che un vero professionista, anche se mercenario, si batte fino in fondo per la casata che lo ha ingaggiato.

3 A BANCHI e MESSINA se dimenticheranno chi davvero, anche fra i loro amici più cari, ha cercato di metterli in difficoltà anticipando probabili campagne acquisti, mine che in spogliatoio hanno già fatto saltare sicuramente i nervi più fragili.

2 Agli ARBITRI se davvero si sono spaventati per la famosa lettera dove venivano invitati a ricordare che il basket è uno sport senza contatti. Un falso, direbbe il grande fondatore che si inventò il gioco per non far oziare quelli del football. Un falso, direbbero tutti quelli che sanno bene come l’attacco faccia vendere i biglietti, ma è la difesa che conquista la gente e le vittorie.

1 Al PROGRAMMATORE TELEVISIVO che in queste giornate di giugno ruberà alla passione le immagini che uno dovrà registrare maledicendo la concomitanza degli orari.

0 Alla nuova CHAMPIONS del calcio, tantissime partite, una fiera meravigliosa ma costosa, se dovesse ispirare BODIROGA e l’EUROLEGA già confusa dall’ingresso dei “campioni” di DUBAI nel mondo magico del basket a Est di Bruxelles.


Ancelotti da sette

La quinta Champions League vinta da Carlo Ancelotti come allenatore, che va sommata alle due Coppa dei Campioni da giocatore, è stata la terza in ordine di sofferenza, ricordando i rigori con la Juventus a Manchester o il colpo di testa di Sergio Ramos al 90’ contro l’Atletico Madrid, e ha dimostrato che la quinta della Bundesliga, arrivata a 27 punti dal Bayer Leverkusen (a sua volta con una rosa di valore medio-alto, certo non stellare) può mettere sotto per metà partita il più grande club del mondo, pieno di campioni e bene allenato, usando le sue stesse armi, cioè lasciandogli l’iniziativa e ripartendo in massa. Poi nel secondo tempo il Real ha preso in mano la situazione e nessuno, dopo le tante occasioni fallite dal Borussia Dortmund nel primo tempo, avrebbe scommesso un euro sui tedeschi di Terzic. In mezzo alle celebrazioni la solita domanda, che possiamo dividere in due. Ancelotti avrebbe salvato l’Empoli? Nicola avrebbe condotto il Real alla sua quindicesima Champions? No. No. Non è vero che tutti gli allenatori sono uguali, perché in ogni contesto ci sono quelli bravi e quelli che non lo sono.

Il licenziamento per giusta causa, della Juventus nei confronti di Allegri, è qualcosa di clamoroso e di difficile da spiegare. Perché se si andrà in tribunale le chance del club di risparmiare i 18 milioni, questo il costo aziendale lordo, residui per Allegri e il suo staff sono pari a zero. Non è che un litigio, oltretutto privato (non ci si riferisce quindi al gesto fatto in campo dopo la finale di Coppa Italia), con il direttore sportivo, sia una giusta causa di licenziamento, altrimenti nessun allenatore esonerato avrebbe mai visto un euro. Ad un primo livello l’idea della Juventus è quella di chiedere 18 per ottenere, mettiamo, 6, insomma di arrivare a una transazione contando sulla voglia di Allegri di tornare ad allenare subito. Ad un secondo è un’altra picconata elkanniana sull’era di Andrea Agnelli, proprio negli stessi giorbi in cui si è consumata l’abiura definitiva della Superlega, con la riammissione nell’ECA adesso diretta da El-Khelaifi, improbabile paladino del calcio di tutti.

Quando finirà l’era De Laurentiis al Bari? Dopo la clamorosa vittoria-salvezza al Liberati contro la Ternana i tifosi del Bari continuano a chiedere un cambio di proprietà, che comunque per la legge attuale dovrebbe avvenire entro il 2028. La tigna nel mantenere due club di prestigio e con un bacino di utenza ampio (Bari è la nona città d’Italia per numero di abitanti), invece di mettere in piedi un serio progetto di seconda squadra come Juventus e Atalanta, si spiega soltanto con le previsioni di aumento enorme del valore dei brand sportivi nei prossimi anni (la stessa scommessa che in altra situazione ha strangolato Zhang). Vendere il Bari fra 3 anni sarà più conveniente, a meno che una promozione in A costringa ad accelerare l’operazione. In ogni caso a nessun tifoso piace sentirsi una seconda scelta o una seconda squadra (espressione usata qualche mese fa da De Laurentiis), vale anche quando la prima è il Real Madrid e quindi figuriamoci con il Napoli. Situazione che non può trascinarsi fino al 2028.

Battendo la Cremonese il Venezia è diventato la terza promossa in A insieme a Como e Parma. Tre club con una grande storia (ma quale club non ha una grande storia?) ed un presente gestito da stranieri: americani i capitali di Parma e Venezia, indonesiani quelli del Como. Questo significa che esattamente metà della Serie A 2024-2025 sarà formata da squadre controllate da persone o aziende non italiane. Una realtà che si presta a mille considerazioni, ma con due che superano le altre 998. La prima: gli imprenditori locali, o comunque italiani, di una certa cilindrata sono in proporzione meno rispetto a una volta, nell’economia in generale e non soltanto nel calcio. La seconda: il calcio italiano ha potenzialità ancora inesplorate, comunque un club italiano si compra meglio rispetto ad un pari rango inglese, ed inoltre può legarsi a discorsi turistici ed immobiliari inimmaginabili per qualsiasi altro paese: certo un pazzo può andare in vacanza a Ipswich o a Wolverhampton, ma non si tratta di turismo di massa.


Fuori Acerbi, fuori Scalvini. La sfortuna ha deciso al posto di Spalletti, così nei 26 per gli Europei a questo punto dovrebbe entrare Gatti. E togliamo il condizionale nel caso il c.t. voglia tentare di nuovo l’azzardo (per come la pensa lui) della difesa a tre, quindi con la necessità di avere in rosa sei difensori centrali. Domanda da bar cattivo: ma c’era bisogno che Gasperini giocasse con tutti i titolari una partita inutile come quella con la Fiorentina? La risposta è semplice. La partita non era inutile, perché al di là del fatto che l’Atalanta l’abbia persa c’erano da conquistare un terzo posto, eguagliando il suo miglior piozzamento di sempre (ottenuto altre tre volte, sempre con Gasperini) e quasi tre milioni di euro in più. Con un altro metro etico-sportivo l’Atalanta avrebbe dovuto allora perdere con il Torino e dare alla Roma la chance di conquistare il sesto posto italiano in Champions. Ma Gasperini prova sempre a giocare, per questo è antipatico a molti addetti ai lavori, come si è notato dai tanti complimenti a denti stretti per l’Europa League.

02 giugno 2024

Le migliori canzoni dei Lùnapop


I 25 anni di 50 Special sono stati celebrati da tutti noi che stiamo pericolosamente spostando il circo della nostalgia verso la fine degli anni Novanta, ma non è soltanto per questo che iscriviamo i Lùnapop nel sempre più divisivo Festival di Indiscreto. I Lùnapop, attenzione, e non Cesare Cremoni che anche se ha scritto tutte le loro canzoni, oltre ad esserne il frontman, ci ha tenuto fin dall'inizio della sua carriera da solista a dividere i due periodi. Di certo i Lùnapop rimangono nell'immaginario collettivo perché per due anni, dal 1999 al 2001, hanno rappresentato gli adolescenti italiani verso la fine di un periodo molto caratterizzato. In tutto l'Occidente, beninteso, magari in Congo e Thailandia c'erano altre logiche.

Quando nel 1999 esce 50 Special siamo in pieno Ulivo mondiale: Clinton, Blair. Schrõder, Jospin, D'Alema che da poco è succeduto a Prodi alla presidenza del Consiglio. In questo clima i cinque ragazzi bolognesi riescono ad uscire dal gruppo, come il Jack Frusciante di Brizzi che pare averli ispirati. Cremonini, Nicola Balestri (Ballo, l'unico che in qualche modo rimarrà legato al leader), Michele Giuliani, Gabriele Gallassi e Alessandro De Simone, hanno un successo immediato e trasversale, e subito vengono spinti a pubblicare il loro primo album, che rimarrà anche l'unico, cioè ... Squerez?, che significa più o meno 'merda liquida'.

...Squerez? esce a fine novembre 1999, lanciato dal loro secondo singolo di vero successo, Un giorno migliore, e diventerà l'album italiano più venduto del 2000, epoca in cui ha ancora senso parlare di dischi venduti. In ...Squerez? c'è anche Qualcosa di grande, in realtà canzone più anziana delle altre, portata in giro prima del boom di 50 Special. Ed è proprio con Qualcosa di grande che i Lùnapop vincono il Festivalbar 2000, prima di andare in tournée, ritirare un'infinità di premi e lanciare altri singoli, fra cui Resta con me che portano al Festivalbar 2001. Proprio all'Arena di Verona si concluderà la loro breve storia, a causa di litigi per motivi finanziari e dell'inizio della carriera solista di Cremonini. I Lùnapop non sono durati mezzo secolo, come troppe band, ma per due anni di passaggio hanno raccontato al loro pubblico di Millennial un'Italia al tempo stesso leggera e ansiosa.

01 giugno 2024

Chocolat

 Prima o poi scriveremo una guida ai film per servi della gleba, cioè quei film che il pubblico maschile sopporta per amore di donne progressiste, come indennizzo per le serate di Conference League. Che nel 2000, quando al cinema abbiamo visto Chocolat (stasera alle 21.20 su La7d: fra Real Madrid e Musetti probabilità di rivederlo pari a zero), non esisteva, mentre già esisteva in embrione quel politicamente corretto che va infilato in ogni fiction. Il film di Lasse Hallstrōm è fondato su una meravigliosa Juliette Binoche, cioccolataia che insieme alla figlia arriva in un paesino francese negli anni Cinquanta. Va da sé che il paesino francese, il cui sindaco è interpretato da un bravissimo Alfred Molina, sia bigotto, conformista, chiuso, refrattario a qualsiasi novità. Come appunto l'arrivo di Vianne, cioè la Binoche, che in breve tempo diventa il centro della vita del paese, amata e odiata. È chiaro che un paese così di destra, che oggi voterebbe per il Rassemblement National o per Reconquéte, non sia felice per l'arrivo degli zingari, dove spicca Johnny Depp, e con la trama ci fermiamo qui. Detto questo, Chocolat si lascia guardare (con lo smartphone fisso su livescore.com, magari) anche se non va oltre il manierismo ed il luogo comune. La Binoche però sempre bravissima, con quel fascino un po' così della donna intellettuale, una delle attrici con più ruoli memorabili (nostri preferiti quelli in Film Blu e Il danno) che ci siano in circolazione.


31 maggio 2024

La generazione di Genny Di Napoli

Pietro Arese è il nuovo primatista italiano dei 1500 metri, cioè una delle gare più prestigiose dell'atletica e personalmente la nostra preferita insieme alla 4x400 nelle grandi manifestazioni: il suo 3'32"13 di Oslo, in una gara bellissima (pazzesca la vittoria in tuffo di Ingebrigtsen su Cheruiyot, Arese ottavo), poteva essere addirittura migliore viste le spallate prese nei primi giri e la distanza corsa all'esterno. Ma in senso storico il record di Arese, nessuna parentela con il famoso Franco anche lui ex primatista dei 1500 oltre che ex presidente della FIDAL, colpisce perché dopo 34 anni scavalca il tempo di un'icona dell'atletica italiana come Genny Di Napoli.

Icona poco vincente, almeno nei grandi appuntamenti all'aperto mentre indoor andava quasi sempre forte, dalla corsa elegantissima e naturale, con una struttura fisica alla Ingebrigtsen. E con la lunga carriera resa difficile dagli infortuni, su tutti quello che condizionò le sue prestazioni alle Olimpiadi di Barcellona, dove era tra i favoriti. Il 9 settembre del 1990 Di Napoli a Rieti, nel meeting forse più amato dagli appassionati (quel giorno c'erano anche Carl Lewis, che nei 100 arrivò davanti all'amico-rivale-gregario Burrell ma dietro a Witherspoon, ed anche un clamoroso Michael Johnson nei 400), corse in 3'32"78, battendo Morceli con quello che era uno dei migliori tempi mondiali dell'anno.

E che è diventato uno dei record italiani più longevi. Fra i record ancora in essere il più vecchio è quello di Fiasconaro negli 800, stabilito nel 1973, seguito dai 200 di Mennea nel 1979 e dagli 800 di Gabriella Dorio nel 1980. Di sicuro Di Napoli è stato uno degli atleti italiani più forti a non avere mai vinto una medaglia olimpica o mondiale, un riferimento per una generazione (lui è del 1968) di appassionati, un magnifico incompiuto (tutto relativo, perché le vittorie in Coppa Europa non le abbiamo dimenticate) che però nella vita post-atletica ha fatto anche tante altre cose.

 


 

Top Gun


Un capolavoro, senza se e senza ma. Top Gunquesta sera alle 21.20 su Italia 1, sintetizza gli anni Ottanta e il reaganismo meglio di mille saggi, e con questo sarebbe detto tutto. Questo film del 1986, da noi gustato in prima visione al defunto cinema Odeon, lascia sempre le stesse vibrazioni ed ha avuto anche un degnissimo seguito in Top Gun: Maverick, come tutti sanno. Come al solito non stiamo a ricordare la trama, limitiamoci alle nostre scene di culto. La foto al pilota sovietico, scattata da Goose (con una Polaroid!), mentre Cruise-Maverick sta volando rovesciato. L'improbabile partita di beach volley, con quei corpi maschili luccicanti, che secondo molti è il punto più alto dell'estetica criptogay. L'arrivo da videoclip in moto a casa della McGillis. Great balls of fire. La battaglia finale. I complimenti di Iceman. Il tutto con una colonna sonora clamorosa, da Take my breath away dei Berlin, opera di Giorgio Moroder, Danger zone di Kenny Loggins, anche questa arrivata da Moroder, il tema principale scritto da Harold Faltermayer, e altre. Da ricordare che Cruise era stato fin da subito il preferito di Tony Scott, che aveva scartato gli altri concorrenti generazionali, da Rob Lowe a Patrick Swayze, mentre la pur divina McGillis, incredibilmente ignorata nel sequel, fu scelta perché non si trovò l'accordo con Brooke Shields, all'epoca una vera superstar, battendo la concorrenza della allora sconosciuta Demi Moore.

30 maggio 2024

Calcio all'italiano

La Fiorentina ha perso la sua seconda finale consecutiva di Conference League, aggiungendo una delusione sportiva alla normale amarezza di fine ciclo. Sì, perché con tutta probabilità l’era di Vincenzo Italiano finisce qui, con una partita giocata al di sotto del proprio standard, accettando il calcio scarno dell’Olympiacos, e con i suoi tanti giocatori offensivi invece in linea con il resto della stagione. Anche se per una volta non c’è molto da recrimonare: Terracciano ha fatto almeno tre parate vere, Tzolakis nessuna, in una partita bloccata come lo sono tante finali e dove solo sui tabellini le squadre di Mendlibar e Italiano erano a specchio con il 4-2-3-1. I greci pronti a verticalizzare in fase di ripartenza e a buttare la palla in mezzo all’area quando il giuco si è sviluppatro sulla fasce, i viola più padroni del campo anche se Mandragora e soprattutto Arthur si sono limitati al compitino. Arriviamo per milionesimi ad osservare che tanti mezzi giocatori offensivi non ne fanno uno vero e non c’è bisogno di vedere e rivedere gli errori di Belotti, Kouamé e Ikoné, la fumosità di Nico Gonzalez, Barak, e Nzola, senza contare Beltran che ha giocato pochi minuti. Il discorso sugli attaccanti non deve far dimenticare la cattiva fase difensiva mostrata dalla Fiorentina per tutta la stagione, al di là di Atene: in Serie fra le squadre della prima metà della classifica nettamente la peggiore.

Poi il calcio è il calcio e non occorre essere italiani per osservare che il gol di El Kaabi, straordinario bomber di coppa ma dai viola cancellato per quasi 120 minuti, sarebbe stato annullato da molti arbitri anche al netto del mitologico arbitraggio internazionale che consiglia di non fischiare ogni volta in cui c’è qualcuno per terra. Il risultato non è tutto ma il risultato dice che l’Olympiacos è la prima squadra greca a vincere una coppa europea in 65 anni di partecipazioni, con l’unica ad andarci vicino che era stato il Panathinaikos allenato dall’immenso Ferenc Puskas, finalista nella Coppa dei Campioni 1970-71 e piegato 2-0 a Wembley dal grande Ajax di Michels e Cruijff dopo una partita a tratti violentissima. Ovviamente il più grande risultato di un club greco rimane quello del Pana, ma questo non toglie meriti all’Olympiacos attuale, che giocando più o meno così aveva eliminato altre favorite come Fenerbahce e Aston Villa, e al suo bomber trentunenne che

fino alla scorsa stagione era stato ben lontano dal grande calcio: l’anno scorso di questi tempi giocava in Qatar. Quanto a Mendilibar, seconda coppa europea in due stagioni dopo l’Europa League dell’anno scorso con il Siviglia in finale sulla Roma di Mourinho. L’età, 63 anni, la filosofia di gioco, ed una lunghissima storia di esoneri con la fortuna (sia al Siviglia sia all’Olympiacos è entrato in carica due mesi prima della grande vittoria) arrivata alla fine, impediscono anche agli esterofili più spinti di chiamarlo maestro. Le sue squadre, almeno nella loro versione europea, sono come quelle italiane di una volta.

Tornando alla Fiorentina, quale futuro per la squadra di Commisso che ripartirà quindi di nuovo dalla Conference League? Per il dispiacere del Torino, con Cairo ieri neotifoso viola (e del resto non è nemmeno tifoso del Torino), che per 116 minuti ha pensato di avere agganciato il treno europeo. In attesa dell’ufficialità della ‘decision’ di Italiano, con Palladino primo candidato alla successione, e delle prime mosse di Pradé e del nuovo direttore tecnico, Roberto Goretti, che prende il posto di Burdisso, qualche considerazione sulla rosa si può già fare. Quasi impossibile che i tanti prestiti (Belotti, Faraoni, Maxime Lopez, Arthur) vengano rinnovati o trasformati in qualcosa d’altro. In bilico la posizione di Bonaventura, a meno che non accetti un ridimensionamento finanziario adesso che non è scattata la clausola per il rinnovo automatico. Di base Kouamé dovrebbe rimanere, ma non è detto, mentre lo svincolato Duncan non ha avuto segnali ed infatti è in contatto con più club. Molto mercato ha Nico Gonzalez, che ha un contratto fino al 2028, ed è probabile che parta anche Martinez Quarta in modo da non perderlo a zero l’anno prossimo. Il recupero con l’Atalanta sarà una delle partite più tristi della storia viola recente.

Dalla Cina con furore


Pochi film hanno avuto un titolo italiano migliore dell'originale: Dalla Cina con furore, invece del cinese Jing Wu Men(la scuola di Jing Wu) e dell'inglese Fist of furystasera alle 21.20 su Cielo, è uno dei rari esempi. Questo uscito nel 1972 è il più famoso dei film di Bruce Lee, che in realtà ne fece da protagonista soltanto quattro, da non confondere con la sterminata produzione basata sul montaggio e sui quasi sosia, ed è a un primo livello la classica storia dell'allievo che vendica la morte del maestro, nel suo caso a colpi di kung fu. Ambientato nella Shangai del 1910, è interessante anche per il contesto storico, con Shangai città internazionale di fatto governata da Regno Unito, Stati Uniti e Giappone. Non che si vedano analisi alla Limes, beninteso. Proprio i giapponesi sono i cattivi della situazione, cosa rarissima al cinema tranne che nei film sulla Seconda Guerra Mondiale, fra razzismo e provocazioni. Al di là del fascino di Bruce Lee e della sua doppia anima, americana e honkonghese, consigliamo questo film per la forza ed i valori che esprime, anche se con gli occhi di oggi molti combattimenti risultano ridicoli. Di culto il modo in cui Chen punisce il cuoco traditore e l'uso del nunchaku, che avrebbe generato in Occidente tanti cattivi imitatori: in caserma, durante il servizio militare, il nostro vicino di branda si allenava in ogni momento libero generando una certa tensione. Ma Bruce Lee non aveva folgorato soltanto lui.

29 maggio 2024

Thiago Motta in carriera


 Bologna e il Bologna hanno preso davvero male l’addio di Thiago Motta. Con critiche, che ci possono stare, ed insulti che qualificano soprattutto chi li urla. Una situazione che costringe a ricordare che il prossimo allenatore della Juventus ha, dopo un anno non memorabile nelle giovanili del PSG, ha iniziato la carriera da allenatore di prima squadra nel 2019 con un esonero, dopo 10 partite, e che nessun tifoso del Genoa si è (giustamente) preoccupato per il suo futuro. Presa in mano la squadra da Andreazzoli a fine ottobre, non riuscì a festeggiare il Capodanno 2020 in panchina nonostante un buon inizio, vittoria con il Brescia ed onorevole sconfitta con la Juventus. Cacciato con la squadra ultima in classifica, che Preziosi affidò a Davide Nicola, che in quella stagione ricordata soprattutto per il Covid riuscì all’ultima giornata a strappare la permanenza in Serie A.

 

E lo stesso sarebbe accaduto anche a La Spezia, dopo un anno di disoccupazione, dove il predestinato (sulla fiducia, come molti predestinati) italo-brasiliano raccolse la difficile eredità di Italiano e fu più volte ad una partita dall’essere esonerato. E lo sarebbe stato prima di Natale, se non avesse vinto in trasferta contro il Napoli di Spalletti, senza fare un tiro in porta, grazie ad un autogol di testa Juan Jesus e ai miracoli di Provedel. Quella è stata la partita più importante della sua carriera di allenatore, subito dopo lo Spezia avrebbe cambiato marcia salvandosi brillantemente e Thiago Motta lo lasciò al momento giusto, senza avere niente in mano. Il resto è quasi storia di oggi, con il Bologna preso in mano a stagione iniziata, con l’aggravarsi delle condizioni di Mihajlovic, e tranquillo a centroclassifica, prima dell’exploit della stagione successiva, cioè questa.

 

Se invece di arrivare clamorosamente in Champions League, a 60 anni di distanza dall’ultima volta, fosse rimasto invischiato nella lotta per la retrocessione con un Bologna che ha giocatori pagati in totale circa 27 milioni di euro lordi (parliamo di ingaggi), meno di quelli delle retrocesse Sassuolo e Salernitana, in tanti avrebbero chiesto la sua testa. Insomma, è il solito discorso: il club e i tifosi pretendono di poter lasciare, se hanno opportunità migliori, ma non accettano di essere lasciati. Per fortuna non funziona così, nel calcio e nella vita, e chi ha potere contrattuale e immagine, come Thiago Motta in questo momento, fa benissimo a farsi rispettare perché la ruota gira. Chi gli augura di fare la fine di Maifredi, peraltro non una brutta fine, sta mettendo sul suo successore (con Italiano sarebbe proprio ruota che gira) al Bologna, senza Zirkzee e magari anche Calafiori, una pressione enorme. 

Mancino naturale

 È un peccato che Mancino naturale sia stasera alle 21.30 su Rai 1, perdendo molti appassionati di calcio che a quell'ora staranno guardando Fiorentina-Olympiacos, e le rispettive mogli, fuori di casa per un impegno di lavoro improvviso. Perché il film di Salvatore Allocca, uscito due anni fa, è un onestissimo film di genere, di quelli che ormai in pochi fanno, essendo i finanziamenti (una regione qua, una banca là, il tax credit, eccetera) del tutto svincolati dal gradimento del pubblico. È la storia, ambientata a Latina, di una madre vedova e nevrotica, un'ottima Claudia Gerini, che riversa tutte le aspettative sul figlio Paolo, chiamato così in onore di Paolo Rossi, bambino con un discreto talento calcistico. L'obbiettivo è farlo partecipare ad un torneo dove ci saranno i migliori talent scout italiani, situazione che fa entrare nel mirino di maneggioni che promettono provìni ovunque, dietro pagamento. Massimo Ranieri, pettinato quasi come Cuccia, è uno di questi, mentre Katia Ricciarelli è la nonna. Raccontato così (non spoileriamo la fine) sembra che il film sia ai confini del trash, invece è una commedia ben fatta, che porta molti di noi all'identificazione. Con il bambino presunto talento incompreso, con il parente che ci crede, con quello che non ci crede, con il genitore frustrato, con il rapporto spesso folle che le madri italiane hanno con i figli maschi, con una periferia dove quei pochi che sognano lo fanno in grande.

stefano@indiscreto.net


28 maggio 2024

Pretty Woman


Quante volte abbiamo visto Pretty Woman? Almeno una all'anno negli ultimi trent'anni. E stasera, alle 21.30 su Rai 1, sarà difficile non dare almeno un'occhiata almeno alla scena in cui Vivian, cioè Julia Roberts (da lì partì la sua vera carriera, mentre quella di Richard Gere si rilanciò), va a fare shopping in Rodeo Drive, prima trattata come una pezzente e poi come una regina. Perché la caratteristica del film che ha consegnato all'eternità la coppia Gere-Roberts, e di pochi altri film, è che vanno visti per così dire in diretta, sui canali generalisti. Non ci sogneremmo mai, noi che ieri sera abbiamo seguito fino all'ultimo rigore Fortuna Düsseldorf-Bochum (non stiamo scherzando), di cercare Pretty Woman in streaming e meno che mai di comprare il dvd, al di là del fatto che l'unico strumento che abbiamo per leggere i dvd sia la PlayStation. Tutti conoscono la trama di Pretty Woman, tutti hanno le loro scene di culto, inutile starle ad elencare. Il fascino di questo film del 1990 è che secondo noi si tratta di un brutto film, poco originale (Cenerentola e dintorni, il principe che salva la ragazza indifesa, le prostitute di buon cuore, i capitalisti cattivi), ma fatto benissimo e curato in ogni dettaglio. A partire dal lieto fine, che noi popolo bue pretendiamo. Così come pretendiamo la bellezza dei protagonisti, perché vogliamo sognare: i cessi stiano a casa a guardare gli spareggi di Bundesliga.

 

Gli anni di Bill Walton

 


Bill Walton non è stato soltanto uno dei più grandi centri della storia della pallacanestro, buono per un coccodrillo adesso che a 71 anni è morto di cancro, ma anche un personaggio unico, non spiegabile soltanto con le vittorie: i due titoli NCAA nella UCLA di John Wooden, i due titoli NBA a Portland e Boston, i mille riconoscimenti individuali fra un grave infortunio e l’altro, per non parlare di quelli minori (a fine carriera 38 interventi chirurgici, quasi tutti a caviglie e piedi). Senza dimenticare che Walton insieme a Sabonis e Jokic può essere considerato il miglior passatore di sempre nel suo ruolo, al di là delle statistiche e del fatto che lui facesse sempre la cosa giusta: infatti i suoi allenatori litigavano con lui non per questioni sportive ma per la sua libertà di pensiero, figlia del clima che si respirava nelle università californiane (era super-californiano lui stesso) dei primi anni Settanta. Fra l’altro lui non veniva da una famiglia di fanatici dello sport: il padre era insegnante di musica, la madre bibliotecaria la NBA non era l’obbiettivo della vita per nessuno di loro. Seguendo il fratello Bruce il piccolo Bill iniziò a giocare a pallacanestro, senza alcun segnale che avrebbe raggiunto i 2.11 dell’età adulta. Una storia, questa, già sentita molte volte (si pensi soltanto a Scottie Pippen), con una tecnica da playmaker, che a causa di una cresciuta improvvisa (a 16 anni in pochi mesi passò da 1.85 a 2.02) si incarna in un corpo da ala o da centro, come nel caso di Walton. Entrato nell’immaginario collettivo non soltanto per la pulizia tecnica clamorosa, ma anche per le sue performance come commentatore senza peli sulla lingua e per le sue comparsate in film e televisione. Padre, fra gli altri, di Luke, campione NBA con i Lakers (attualmente è assistente allenatore ai Cavs), come giocatore è stato uno dei più grandi ‘What if’ della storia: il Bill Walton 1976-77, che portò i Trail Blazers al titolo battendo prima i Lakers di Jabbar e poi i Sixers di Doctor J, al suo primo anno di NBA, è un manuale di basket ed è un dovere andarselo a rivedere su YouTube. Davvero strana la sua storia con la nazionale: ai suoi tempi i professionisti non potevano (né volevano, va detto) giocare in competizioni FIBA, quindi le sue esperienze sono soltanto giovanili: appena uscito dalla high school, nel 1970, fece parte della modestissima selezione statunitense ai Mondiale in Jugoslavia, che arrivò quinta battuta anche dall’Italia di Giancarlo Primo, mentre nel 1972, quando era una superstella al college, rinunciò alla convocazione per le Olimpiadi di Monaco, per motivi mai chiariti (si parlò anche di protesta contrio la guerra in Vietnam) e comunque con pentimento tardivo di Walton, visto che anche con quell’arbitraggio gli Stati Uniti con lui in campo avrebbero vinto l’oro in scioltezza. Un altro ‘se’ nella carriera di un fenomeno al tempo stesso grandissimo e incompiuto.

 

C'è troppa frociaggine?

 C'è troppa frociaggine? Una domanda che trae spunto dalla battuta di Papa Francesco detta ai vescovi, riferendosi alla eccessiva quantità di omosessuali presente nei seminari. Una battuta che nel mondo del politicamente e giornalisticamente corretto, di solito accodato acriticamente al Papa, ha scatenato reazioni, è il caso di dirlo, da checche isteriche. Anche perché si dovrebbe scrivere ciò che si è scritto di Vannacci... Al di fuori della battuta e dello scoop di Dagospia, copiato a denti stretti dai vaticanisti embedded (ma non da quelli televisivi, sempre in estasi tipo Bernadette), la posizione del Papa, oltre che della Chiesa Cattolica, sull'omosessualità era già nota: non è un crimine e nemmeno un comportamento che meriti discriminazioni, ma certo non deve essere promossa, favorita o anche solo accettata culturalmente dalla Chiesa.

L'evidenza dice che fra i sacerdoti la percentuale di gay sia superiore che fra gli operai e gli impiegati, ma lo si potrebbe dire per molti altri mondi, anche al femminile. Per certi versi, ma questo valeva soprattutto nel passato, il sacerdozio a volte fungeva da copertura. Ma al di là della Chiesa, le cui posizioni influenzano sempre meno persone, ci sono due discorsi enorme da fare e che noi con la consueta superficialità liquidiamo in due righe. Il primo è quello di marketing: come può, con l'Islam che avanza (vorremmo dire alle porte, ma purtroppo sono già entrati), il Papa ghettizzare i fedeli, o anche soltanto gli aspiranti sacerdoti, di vari orientamenti sessuali? L'unica vera arma dei cristiani contro l'Islam è quella della tolleranza: la libertà contro il peggio del peggio. Sempre in tema di marketing, la linea pro-gay dovrebbe essere obbligatoria per una destra libertaria, modello Wilders, che però in Italia ha sempre avuto poca fortuna.

Il secondo discorso è ancora più ampio e riguarda la società in generale. Con l'allarme lanciato tanti anni fa dalla scomparsa Ida Magli, che fece scalpore attaccando la femminilizzazione della società, della scuola ed in definitiva anche degli uomini occidentali. E ancora prima, a fine anni Ottanta, i saggi della più famosa antropologa italiana erano diventati pop evidenziando l'omosessualità latente che sta alla base della società non soltanto occidentale. Latente, appunto, perché dal punto sessuale e sociale l'omosessualità è sterile e la sua diffusione oltre certe percentuali è tipica delle civiltà in declino. La nostra domanda è riferita al qui e adesso, nell'Italia del 2024: c'è troppa frociaggine in giro?


27 maggio 2024

Atari o Intellivision?

 La notizia del passaggio del brand Intellivision ad Atari segna di fatto la fine di un’epoca, in realtà già finita da tempo. Quella della prima era d’oro dei videogiochi da casa, dominata inizialmente dalla console Atari VCS (poi 2600) lanciata da Atari nel 1977 e il cui scettro fu conteso da Mattel con il sistema Intellivision uscito un paio di anni dopo. Una battaglia tra una macchina graficamente inferiore ma con un catalogo amplissimo (composto anche da tante conversioni da arcade) e una più evoluta il cui punto forte erano di fatto le simulazioni sportive, molto più realistiche di quelle presentate sulla controparte.


Ma anche una battaglia che in Italia si giocò qualche anno dopo (l’Intellivision da noi uscì nell’estate del 1982), considerati i tempi tecnici di lancio in Europa molto diversi da quelli attuali, mentre nel contempo si affacciavano sul mercato anche i primi (e costosi) home computer. E a cui parteciparono come attori interessati direttamente sui due fronti i produttori indipendenti delle all'epoca cartucce, con brand destinati poi a fare la storia anche negli anni successivi (come Activision, nata da alcuni designer fuoriusciti da Atari) o semplicemente diventati icone dell’epoca (come Imagic).

Indimenticabili quindi la sorpresa dei primi platform così come le pubblicità tipicamente americane che mettevano a confronto le simulazioni di entrambi i sistemi. Ecco che i ragazzini si divisero in vere e proprie fazioni (meglio il joystick o il comando a disco?), dalle quali erano esclusi i possessori di console di minore successo come il Videopac proposto in Europa dalla Philips. Poi arrivò a sparigliare le carte il ColecoVision, ma era troppo tardi, con il temporaneo crollo di un’industria poi via via ripresasi alla grande per continuare fino ai giorni nostri. Con sistemi potentissimi che hanno cambiato l’esperienza videoludica mentre le vecchie console vivono tra il retrocomputing e i cosiddetti giochi homebrew sviluppati ex novo. E voi per chi eravate: Atari o Intellivision?

Donne o Trans?

Donne o trans? O meglio: gli uomini diventati (più o meno) donne devono poter competere con le donne nello sport? Il pretesto per parlarne a...